La figlia del capitano

Mi sono presa un po’ di tempo per cercare di capire le implicazioni della morte di Robin Williams.

Tra l’altro, la coincidenza della scomparsa di Lauren Bacall a 24 ore di distanza ha reso ancora più evidente una cosa già piuttosto ovvia. Era amata anche la Bacall. Era rispettata. Era intelligente. Era bellissima. Aveva personalità. E rientrava a pieno titolo nel mito. Certo aveva novant’anni e non si è uccisa. Tuttavia la sproporzione dell’impatto psicologico tra l’uno e l’altra è stata enorme. Robin Williams morendo s’è portato dietro qualcosa di mio che la Bacall evidentemente non aveva.

Ed è da quando è successo che mi domando esattamente di cosa si tratta. In parte la risposta è ovvia e banale. La mia generazione, quella che oggi controlla il mondo, è la stessa che aveva 10 o 12 anni ai tempi di Mork e Mindy. Oltretutto da allora Williams non è mai sostanzialmente scomparso dal firmamento. Alti e bassi, come tutti. Ma Mindy per quel che ne sappiamo potrebbe essere finita dietro a un banco di triglie a Chioggia, e non ce ne stupiremmo nemmeno un po’.

Lui è rimasto sempre lì, più o meno in cima alla scala. Che però è una cosa che potresti dire anche, chenesò, di George Clooney – la prima serie di ER è del ’94 – o di Brad Pitt – Thelma e Louise è del ’91. Gente che bazzica da più di 20 anni insomma. Che sa fare il suo mestiere decisamente bene, con talento tutto sommato versatile sia per il dramma che per la commedia . E che se si ammazzasse farebbe molto rumore. Però lo sappiamo che non sarebbe la stessa cosa, no? Mi dispiacerebbe, anche parecchio. Nel caso di George davvero in maniera esagerata, perché mi è sempre stato simpatico, soprattutto adesso che ha smesso di frequentare maiali coreani e veline decorticate, e pare ben deciso ad accasarsi con una con un quoziente di intelligenza valevole ai fini di un titolo di studio superiore alla terza media. Ci resterei sinceramente male. Ma non nello stesso modo.

Quindi non è solo la permanenza del successo. Non è il talento. E non è il suicidio. Per quel che mi riguarda, di sicuro non è nemmeno la vocazione che aveva per quegli scioglilingua muscolo-buccali che l’avevano reso famoso, e che ho sempre francamente detestato. Come penso spesso anche vedendo Benigni, quando attaccava quella solfa mi pareva un condannato ai lavori forzati nella Casa Circondariale del Pagliaccio. Mi pareva spontaneo come una monaca a una gang bang. Qualcosa che faceva perché il mondo se lo aspettava da lui, ma che da moltissimo tempo non gli dava più nessuna gioia e non gli apparteneva.

Sono quasi sicura che non dipenda nemmeno da quei personaggi che ha recitato in modo superlativo negli ultimi anni, e in cui finalmente si era distaccato dal suo cliché. Insomnia. One hour photo. Film un po’ così, ma in cui faceva paura. Se pensi che quella faccia lì era Mrs Doubtfire, per riuscire a rendere credibile un serial killer ce ne vuole.

Tuttavia no, non credo che dipendesse neppure da questo. Credo piuttosto che sia qualcosa legato profondamente al potere d’identificazione. Il potere d’identificazione è un costrutto essenziale per rendere efficace qualunque rappresentazione. Perché non sempre l’arte è catarsi – certi film, l’unica catarsi che ti ispirano è quella di afferrare una fresa e scartavetrare la corteccia di tutti quelli che hanno contribuito alla creazione dell’opera fino al completo piallamento neuronale, come loro hanno fatto con te somministrandoti vagonate di merda -, a volte, la maggior parte delle volte, è solo onesto intrattenimento. Altre è intrattenimento disonesto. Ma comunque niente che sia destinato a durare.

Se invece la catarsi in qualche modo funziona, allora quello che vedi entra a far parte del tuo metabolismo spirituale, e dopo non sei più la stessa persona che saresti stato se non avessi letto quel libro, o visto quel film.

Ma neanche questo chiarisce tutto. Accresce il coinvolgimento emotivo ma non spiega fino in fondo il senso di perdita. La faccenda è piuttosto che i film catartici che mi sento di attribuire a Robin Williams – La leggenda del Re Pescatore, L’Attimo Fuggente, Will Hunting, Patch Adams – me l’hanno coagulato in un ben preciso personaggio che ormai risiede nel mio pantheon interiore. E parlo proprio di lui, non necessariamente di tutto il film. Non amo troppo Will Hunting, per esempio, e non impazzisco nemmeno per Patch Adams. E’ Sean McGuire che mi è rimasto dentro. È Patch. È Parry. È il professor Keating.

Perché se la botta di depressione che l’ha ucciso l’avessi avuta io, il professor Keating è quello che sarebbe venuto a leggermi poesie fino a notte fonda con gli occhi da matto, e non mi avrebbe permesso di cedere. E Sean Mc Guire mi avrebbe fatto un discorsetto all’apparenza disincantato – in realtà vivo, vero e potente – all’ombra del lago del campus, ricordandomi chi sono e cosa valgo anche se il mondo non risponde alle mie chiamate. Patch mi avrebbe messo un naso di gomma rosso e mi avrebbe costretta a fare un giro per il reparto di oncologia pediatrica prendendomi a pacchere affettuose sul coppino per ricordarmi che il dolore che annichilisce è un’altra cosa, e che la mia vita, per quanto brutta possa sembrarmi, è latte e miele rispetto a quella di tanti che mi passano accanto senza che nemmeno me ne accorga, e che vengono spazzati via da un destino tanto più grande di loro. E Parry mi avrebbe preso per mano, mi avrebbe costretta a indossare un gonnellone hippie tipo Romina Power rimediato nella spazzatura, e poi mi avrebbe portato a suonare i citofoni e scappare fino a che non mi fosse tornata la voglia di ridere.

È per questo che mi ha fatto male. Perché per me lui era quello che conosceva le vie della salvezza, e non le teneva per sè. Un terapeuta di celluloide che abitava certi angoli periferici della mia mente insieme a tante altre silenziose divinità laiche. Mi era di estrema consolazione – e non importa che non ci pensassi mai; quando qualcuno fa una cosa del genere per te una volta nella vita, oppure in un libro o anche in un film, l’ha fatta per sempre, anche quando non te ne ricordi – sapere che lui era lì, che avrebbe saputo cosa dirmi se io avessi perso le parole.

Sarebbe stato così credibile – così catartico – se tutto questo l’avesse solo recitato? Se non l’avesse avuto dentro come un talento e una ricchezza? Ovviamente no. Ma come tutti noi, non aveva solo questo. Aveva molte altre ombre di segno opposto. Ugualmente grandi. Ugualmente potenti. Ugualmente invincibili. Ha scelto il suo destino, ne aveva il diritto, e di sicuro adesso tutto gli è molto più chiaro. Adesso le cose forse hanno perfino un senso.

Sono io che ho un piccolo dio in meno, un minuscolo lare giocoso che devo togliere dal mio altare e che non sarà rimpiazzato. È questo il pezzo che si è portato via. È per questo che mi manchi, Robin.

robin young

12 pensieri su “La figlia del capitano

    • Sai che leggendti mi sono resa conto che non ho mai visto una sola volta Williams al di fuori dei suoi film. Mai una volta. Per cui credo a quello che dici, e lo trovo davvero particolarmente triste.

      • A parte i film, non ricordo una sua intervista dove non facesse la caricatura di qualcuno.
        Da noi successe la stessa cosa con Noschese, se non è un paragone azzardato.

  1. Non ho molto da dire, se non che ho letto il tuo post con la bocca semiaperta, d’un fiato. Lo trovo tanto vero, anche per me. Buona serata..

  2. Bello. Io non sono riuscita a spiegarmi perchè mi abbia così intristito la sua morte, sicuramente su una cosa sono d’accordissimo, al di là dei suoi film (parecchi erano a dir poco così così) rimanevano in mente i suoi personaggi, il modo di interpretarli, non so… Sta di fatto che mi ha fatto tantissima tristezza.

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