Declinazioni femminili irregolari

Sarà che mi ero emozionata già in fase di atterraggio, ma anche dopo lo sbarco a Istanbul mi è rimasta addosso una sensazione di attesa per le piccole meraviglie nell’aria, che mi ha predisposto a guardare le cose esercitando la più altra forma di licenza nei confronti dello scetticismo. Mi ha fatto tornare in mente una cosa che mi successe moltissimi anni fa, nel primo paese estero che mi capitò di visitare.

Durante le medie andai due o tre volte in Inghilterra, d’estate, nel paesino più inutile della provincia di Sheffield. Che se non è la cosa più triste che trovi da quelle parti, di sicuro si candida per il primato con onore. Eravamo un gruppetto di ragazzini italiani che in due settimane aveva l’opportuità di spiccicare forse quattro  frasi in inglese, e per il resto cazzeggiava ai giardinetti mangiando dolcetti al cioccolato e aspettando l’ora per andare a dormire. Anche perché il paesino – si chiamava Dronfield – era privo di luoghi qualificati a esercitare qualsiasi attività umana a orientamento sociale al di fuori del contesto abitativo privato. I giardinetti erano l’equivalente delle Folies Bergère nella Parigi di Toulouse-Lautrec, per dire, e al di là di quello francamente non si andava.

L’unica attività minimamente ludica che potevamo eserciare, a parte un paio di visite alla pista di pattinaggio del paese vicino, era una gita a Londra che nel corso del soggiorno si faceva una volta sola, anche perché bisognava sciropparsi 300 km e la benzina non te la regalavano nemmeno agli inizi degli anni ’80.

Londra è stata la prima grande capitale europea che ho conosciuto. E quando il pulmino bianco su cui ci caricavano in 20 come masserizie attraverò Bond Street, la magia mi travolse. Non che ci volesse effetti speciali, per carità. Avevo 12 anni. Non ero mai stata all’estero. Venivo da una grande città, occhei, ma Roma ha sempre dovuto fare i conti con una dimensione provinciale mica da ridere, ché non a caso è la capitale d’Italia, un paese che non fai nessuna fatica a derubricare dall’elenco delle nazioni, anche senza necessariamente posporre l’aggettivo ‘civili’.’ E poi era il 1980. Forse l’81. L’unico contatto che avevo avuto fino ad allora con gli extracomunitari era stato la popolazione dei filippini a servizio domestico. E i filippini a Roma credo siano l’etnia più antica presente in città dai tempi dell’invasione dei Galli di Brenno e delle oche sul Campidoglio. Per cui insomma non si qualificavano più come stranieri. I neri li avevo visti solo nei film. L’unico indiano col turbante prima di allora era stato Kabir Bedi, e anche quello in tivvù, in una roba ambientata almeno 150 prima. Mi aspettavo che da un momento all’altro partisse in sottofondo la sigla dei fratelli De Angelis, e che dalle finestre cominciassero a volteggiare i sikh sulle liane col kriss fra i denti. Per non parlare del fatto che in mezzo a loro si muoveva gente vestita di nero con la bombetta in testa e l’ombrello al braccio tipo The Avengers. L’eccesso di citazioni iconografiche che fino a quel momento aveva fatto parte di un universo immaginifico del tutto fittizio, mi provocò un mezzo collasso emozionale che ricordo ancora con moltissima trepidazione.

L’areoporto di Istanbul è stato un po’ la stessa cosa, a parte quei 34 anni di differenza in cui il mondo è cambiato un pochino e in cui necessariamente siamo diventati tutti un po’ più smaliziati. La prima Turchia che ho incrociato non è stata quella moderna. Ed è buffo, perché se c’è un posto dove pensavo di incontrarla era proprio quello. E invece mi sono goduta una lunga fila al controllo passaporti – un’attività che di rado qualifichi come amena – scrutando sotto il velo total black di decine e di decine di femmine che viaggiavano esclusivamente in branco, coperta dalla testa ai piedi come non avevo mai visto una donna dal vivo, e con gli occhiali da sole a schermare anche l’unica infinitesimale fessura degli occhi. Sembravano matrioske umane in gramaglie. Si muovevano in fila dalla più alta alla più piccola, guidate da un uomo di mezza età vestito sempre nello stesso modo anonimo: camicia chiara e pantaloni di tessuto. Più, in mano, un mazzetto di passaporti squadernati tipo scala reale. Si vede che le donne in certe culture hanno bisogno di una doppia attestazione di identità: quella formale del documento e quella sostanziale dell’uomo che le possiede. Non possono uscire di casa senza l’uno e senza l’altro. Quando arrivava il loro turno al controllo si muoveva sempre prima lui, consegnava i documenti, e poi faceva cenno alle donne di avvicinarsi al desk. Malgrado Erdogan al governo e il culto islamico come religione di stato, al poliziotto fregava una beneamata cippa degli usi locali. Le obbligava tutte e sostare sotto l’occhio della telecamera e sollevare il velo dal viso. Si vede che i culti monoteisti non vanno tanto d’accordo con la modernità. Chissà perché, frizzanti e peperini come sono.

Ad ogni modo è stato buffo e triste. Erano tutte regali nel loro incedere necessariamente lento e processionale, perché camminaci tu col camicione a strascico senza correre il rischio di spaccarti l’osso del collo alla prima scala mobile che ti inghiotte il volant. C’è da dire che sul versante estetico la tunica dona a tutte. La versione sepolcrale della teoria delle Vergini di S.Apollinare in Classe. Però l’estetica non è un buon motivo per sopportare un inferno privato. Certo, per fare questi discorsi bisogna potersi permettere di scegliere, e non mi pare che sia il caso loro. Le più rigorose le ho viste in areoporto, per le strade ce ne sono molte, spesso coperte oltre ogni limite di tolleranza in un paese climaticamente feroce come quello, ma mai così schermate come quelle che ho visto lì. Probabilmente la maggioranza di loro non era nemmeno turca. Saranno stata arabe in stop over per qualche altra destinazione più esotica, suppongo.

Mio marito le guardava con la stessa curiosità. Ha detto una cosa giusta a cui non avevo mai pensato: che le tue convizioni religiose ti impongano l’obbligo di coprire le donne dalla testa ai piedi posso anche arrivare a capirlo. E’ la tua fede, non sarà mai la mia, ma forse se nasci in certe parti del mondo non puoi fare diversamente. Ma scegliere un colore come il nero con tutto quello che implica per la media climatica dei paesi musulmani, vuol dire che Dio non c’entra. Non lo fai perché ami lui. Lo fai perché odi loro.

vergini

Cose che mi sono successe a Istambul (3): crossing universes

Il primo simbolico avatar del viaggio è stato il Montanari. Ai tempi miei quello che andava per la maggiore era il Rocci, ma i tempi miei sono passati da svariati annetti, per cui trovo fisiologico che nel frattempo sia stato sostituito da qualcosa di diverso. Peraltro, sul fronte del latino, sento invece  dire che il Castiglioni-Mariotti spacca ancora il culo alle mosche proprio come 25 anni fa. Che del resto, ragazzi miei, pubblicare ex novo un dizionario di greco antico o di latino, così come fare una nuova edizione critica della Commedia di Dante, è una robetta impegnativo che non fai certo nei tempi morti al cesso.

Il Montanari dunque è un dizionario di greco antico ad uso delle scuole superiori. Ed è comparso nel mio orizzonte al desk dell’imbarco a Venezia. Lo brandiva un ragazzo bengalese di 25 anni circa che contrattava per imbarcarlo come bagaglio a mano. Credevo lo chiedesse per sé, e invece non era così, ma questo l’ho scoperto solo dopo. Lo rivedo di nuovo – il Monatanari, non il bengalese – nelle mani di una ragazzina di 15 anni circa, della stessa etnia, appena passato il controllo documenti. E mi si ripalesa per la terza volta dopo lo sbarco a Istanbul, nel corridoio di collegamento tra l’aereo e l’aeroporto, sempre in mano alla stessa ragazzina. Be’ ragazzi, io sono curiosa come una scimmia. Ho resistito al desk, ho resistito al controllo passaporti, ma mo’ siamo a Istanbul e sono certa che esiste qualche legge internazionale che mi consente di farmi i cazzi altrui senza ripercussioni legali. Per cui mi accosto alla ragazzina. Ne do per scontata la perfetta padronanza dell’italiano, senza la quale l’unica ragione plausibile per cui avrebbe potuto tenere in mano un dizionario di greco antico, sarebbe stata se l’interno fosse stato cavo e pieno di cocaina. Senonchè mi risulta che quel genere di droga fa di norma il percorso da oriente a occidente e non il contrario, per cui mi sono sentita abbastanza sicura di potermela rischiare. E poi lei non aveva né l’occhietto né il physique du role della cugina birmana di Pablo Escobar.

Perdonami – le faccio – ma questa curiosità me la devi togliere. Perché ti sei portata un dizionario di greco antico che peserà 5 chili su un aereo per la Turchia? Lei mi fa un sorriso bellissimo – tenete conto che era alta tipo un metro e quaranta, una cucciolina bengalese in miniatura col sari e tutto l’ambaradan, che mi fissava dal basso verso alto stimolando i miei precari accenti materni – e con assoluta naturalezza mi risponde: è che frequento il liceo classico di Conegliano ma ora sto tornando a casa. Qui siamo in transito, e per arrivare in Bangaldesh ci vorranno altre 16 ore, per cui ho pensato che per passare il tempo in volo potevo approfittarne per tradurre qualche versione di greco. Anzi, lei saprebbe dirmi dove devo andare  per il transfer? Perché questo aeroporto non lo conosco, ed è la prima volta che passo da qui.

Il cuore mi ha fatto un piccolo capitombolo strano, perché è stato come se tutta la storia del mondo in un istante si fosse sintetizzata e condensata nella faccina scura di questa piccolissima adolescente bengalese. Il passato e il presente. L’oriente e l’occidente. Il greco antico su suolo turco. Una terra dove un tempo si parlava ottomano, prima ancora bizantino, e alle origini della civiltà, proprio la stessa identica lingua codificata nel libro che lei aveva con sé. Tutto questo nelle mani di una ragazzina piccola e dignitosa che nasce all’estremo oriente del mondo per finire a vivere in pianura padana. Dal mio punto di vista, che è solo uno degli innumerevoli punti di vista pensabili in rapporto all’inclinazione dello sguardo che orienti su un qualsiasi topografia del pianeta, è  il massimo dell’esotismo coniugato alla quintessenza del provincialismo. E delle tante cose che potresti fare dopo aver percorso geograficamente e psicologicamente questa enorme massa di chilometri che ti strappano dalla tua terra e dal tuo passato, e ti trapiantano dove nessuno capirà mai davvero la lingua della tua anima, decidi di iscriverti al liceo classico, dove ti insegneranno i fondamenti di una civiltà che è scomparsa da svariati secoli, e i cui ultimi eredi sono i tuoi vicini di casa a Conegliano, quelli che in questo momento stanno facendo la fila in migliaia per partecipare al prossimo casting di Amici di Maria, e la cui conoscenza applicata del mondo antico si riduce, nella migliore delle ipotesi, a un link ossessivamente ripetuto in bacheca FB di quel passaggio del Gladiatore in cui Russell Crowe urla: al mio segnale, scatenate l’inferno.

Quando uno dice che in fondo il mondo è piccolo, può indicare tante cose. Questa versione, che non vuole significare niente di diverso da quello che è, mi ha particolarmente intenerito. La piccola bengalese ambasciatrice della storia del mondo in sincronia e in diacronia.

L’abbiamo accompagnata al desk dei trasfer –  non ci avrei rinunciato per niente al mondo – e le abbiamo augurato buon viaggio. Poi abbiamo tirato dritto verso la coda del controllo passaporti. Le ho lanciato un’ultima occhiata dal tapis roulant prima che scomparisse inghiottita da una fila. Le ho fatto ciao con la mano ma non so se mi ha visto e se ha risposto. Troppa gente a quel punto tra me e lei.

Cose che mi sono successe a Istanbul: intro(2)

M’ero scordata che c’è un’altra ragione per cui abbiamo temporanemente smesso di viaggiare, anche se in effetti riguarda solo me.

Terrore degli aerei. Puro. Limpido. Cristallino. Che fronteggio solo facendo ricorso alle mie ampie riserve di ragionevolezza. E questo malgrado il signor Middle affermi che sto peggiorando, probabilmente perché col passare degli anni non si ringiovanisce, e le tare tendono a incancrenirsi. O perché gli lascio i lividi sul braccio in fase di turbolenza/decollo/atterraggio, in rigoroso ordine di gravità. L’atterraggio è ancora quello che preferisco, nei limiti, perchè il mio terrore più incorrotto è l’avvitamento a picco da 15.000 piedi di altezza. Schiantarmi contro un container a 250 km all’ora perché il carrello non è sceso, mi preoccupa già un po’ meno. A due metri dal suolo tutto mi preoccupa meno. E tuttavia anche quello non è un bel vivere.

Odio gli aerei. E ormai sono al punto in cui dovrò prendere in considerazione gli ansiolitici. O in alternativa la vodka. Una bottiglia. Che mi fa schifo, ma ritengo possa funzionare.

Stavolta poi ci è successa una cosa fantastica che non era mai capitata prima e che è evidentemente figlia del desiderio del destino di venire a provocare. Al check-in del volo da Venezia per Istanbul la hostess al desk ci fa: parlate inglese? Mai successo prima che mi si facesse una simile domanda in quella sede. Sono quei casi in cui ti senti sempre un po’ preso sul fronte dell’orgoglio. Che vuol dire parlo inglese? Vuoi sapere se posso recitarti i Canterbury Tales all’impronta imitando l’accento di Geoffrey Chaucer, o ti basta che capisca dove indicare col dito per ordinare un fish & chips? Optiamo per una soluzione di compromesso: be’, si, all’incirca, perchè? E la hostess: perché posso assegnarvi i posti accanto alle uscite di emergenza, che sono più larghi e comodi, ma in caso di pericolo siete responsabili della sicurezza dei passeggeri. Dovete capire cosa vi si dice ed eseguire gli ordini.

Mi è venuta la ridarella imbecille e il tremito alle ginocchia. Volevo prenderla a mazzate – anche perché tra l’altro era una circassa bionda che parlava perfettamente l’italiano ed era di una sconvogente bellezza. Tesoro, avrei voluto dirle, se c’è una situazione di emergenza, la questione non è che io parli inglese o meno. Potrei parlarlo come sir John Gielgud e non servirebbe a un’amata fava. Mi dovreste comunque soccorrere con l’ossigeno e i sali tutti quanti siete dentro quest’ammasso di ferraglia, perché comincerei a correre avanti e indietro come un’indemoniata e dovreste in ogni caso abbattermi con una mazzata in testa, credi a me. Per cui lasciamo perdere. Dammi i posti risicati, ma risparmiami la responsabilità morale della vita di 200 persone. Perché se fai conto sulla mia freddezza siamo già tutti morti. Dal primo all’ultimo. E mi seccherebbe cominciare le ferie con una strage.

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Cose che mi sono successe a Istanbul: intro(1)

Ci ho dovuto pensare su. Perché Istanbul mi ha molto ispirata, e da diversi punti di vista. E in fondo erano svariati annetti che non facevo più un viaggio al di là dei paesi confinanti con lo stivale. Forse perché col signor Middle abbiamo trascorso i primi dieci anni insieme a girare in lungo e in largo per il mondo. Mi ricordo di certe tirate transoceaniche da 18 ore con stop over a Dubai o a Bangkok, che se ci ripenso mi scatenano ancora l’attacco di panico.

Una volta siamo stati a Hong Kong con l’intenzione di fermarci 3 giorni e poi proseguire per Bali. Senonché in agenzia avevano omesso di avvisarci che per entrare in Indonesia ti serve un passaporto valido per almeno altri sei mesi dalla data della partenza. Tre volte nella vita ho usato un’agenzia – porca paletta – normalmente faccio tutto io e mi documento sull’occorrente. Ma in quella circostanza non avevamo tempo e abbiamo lasciato fare ad altri. E Diosolosa se ce ne siamo pentiti.

Al check-in di Hong Kong, mentre caricavamo i bagagli, una gentile signorina ci ha fatto notare che il signor Middle col passaporto che stava esibendo non poteva imbarcarsi per l’Indonesia. Ci siamo guardati. Abbiamo chiesto di parlare con un funzionario. E il funzionario ha ripetuto esattamente la stessa cosa, sorridendo meno. Noi ci siamo rimasti male. E abbiamo passato le successive 12 ore telefonando a chiunque nella speranza che ci risolvesse il problema. In quell’occasione abbiamo potuto apprezzare l’ineffabile utilità dei servizi diplomatici all’estero. Quando abbiamo telefonato in consolato, ci hanno risposto di essere spiacentissimi, ma il console purtroppo non era in condizione di aiutarci in quanto era a pesca. Me lo ricordo come una folgorazione. Perché è una di quelle notizie che non ti spinge ad amare la diplomazia. Non è che io non capisca che uno può amare la pesca. E nemmeno che ogni tanto faccia una puntata al più vicino torrente disponibile. Ma me lo devi proprio dire al telefono mentre sto per essere rimpatriato col foglio di via? Non avete un protocollo per le emergenze che contempli un elenco di pietose menzogne da ammannire all’utenza? Non puoi ricorrere a una crisi internazionale, un’epidemia globale, un summit improrogabile, una crisi nelle forniture petrolifere? Macché: cacciati come ricercati internazionali per colpa di una sogliola. Sono cose che mortificano il senso di patria. Siamo dovuti rientrare in Italia senza tante storie. Arrivati venerdì, e rientrati la domenica. Per dire che noi, quando parliamo di weekend esotico, abbiamo mete più ambiziose di una sosta da un paio d’ore all’hamman di Loreggiola.

Insomma, all’incirca cinque o sei anni fa ci è venuta la nausea degli areoporti. Avevamo preso troppi aerei e visto troppe cose forse in un lasso di tempo esageratamente breve, ed è dal 2005 circa che facciamo perlopiù solo vacanze da pensionati. Era arrivato il momento di buttare di nuovo il cuore oltre l’ostacolo, e l’abbiamo fatto.

Non che partire mentre Taksim bruciava fosse esattamente nei nostri piani. Però devo dire che ha dato colore all’impresa. Oltre al fatto che è la prima volta che passo così vicina alla storia.

Adesso con calma raccolgo le idee, e poi ne scrivo su.

Turkish species