Prematuro entusiasmo

Non faccio mai amicizia su FB con qualcuno che non conosco di persona, a meno che non si tratti di circostanza eccezionali. Ma devono proprio esserci di mezzo degli amici seri – amici veri, non digitali – che garantiscano per loro. In sei anni mi sarà capitato forse due volte, e in entrambi i casi la prudenza ha premiato. Persone fantastiche, ma solo perché la selezione a monte era inattaccabile.

Oggi mi cerca un tizio con cui ho in comune un paio di amici carissimi. Ma dico proprio carissimi. Praticamente fratelli. Date le premesse, mi sembrava che ci fossero gli estremi per la famosa eccezione. Stai a vedere che ho trovato una persona con cui si può parlare a cuore aperto senza impantanarsi nel luogo comune da socials, mi sono detta.

Scambiamo un paio di chiacchiere. Mi dice dice che ama un particolare psicoanalista degli anni ’60 su cui ho delle perplessità. Poi mi cita la psicoanalisi in generale, e anche lì io manifesto le mie riserve. E proprio mentre un pensiero strisciante e carezzevole, con un suo retrogusto di dolcezza, comincia a farsi strada nella mia mente appena sotto la soglia della consapevolezza – ma vuoi vedere che qui c’è qualcuno con cui scambiare opinioni interessanti? – mi risponde così:

Be’, viaggiamo su treni diversi.

Lapidario. Tombale. Apodittico. Inespugnabile. Dopodiché scompare. In sintesi: non la pensi come me, per cui non ho interesse a continuare questa discussione con te.

Ci sono rimasta male come una bambina.

Ma una volta la diversità non era una ricchezza?

OPINIONE

Killing me softly

Io ve lo devo dire. Le macerie fumanti dell’affaire Hollande-Trierweiler mi hanno portata a fare riflessioni cupamente malinconiche. Che sono l’esatto contrario di quelle che avevo fatto al momento dell’insediamento di Hollande all’Eliseo. Per me, che sono un’antropologa della rava e della fava di un certo spessore, il fatto che un presidente francese abbia avuto al suo fianco donne di questa portata, era stato francamente motivo di gioia. Perché così come non è sposato con la Treirweiler,  non era stato sposato nemmeno con la Royal. La Treirweiler, insomma, è entrata come première dame in quel palazzo senza essere congiunta al François dal sacro vincolo del matrimonio. Potrei sbagliarmi, ma non mi risulta che in nessun paese cattolico o cristiano sia mai successa una cosa del genere. E la Royal, anche lei senza vincoli formali, gli ha dato 4 figli. Sotto il profilo della morale corrente le cose erano già abbastanza anticonvenzionali. Soprattutto considerando che noi invece viviamo in un paese dove un medio politico di sinistra, quando proprio vira all’estremismo radicale, lo trovi che bacia l’anello al cardinale col ginocchio inchianato a tutte le sagre di paese e si presenta al Meeting annuale di Comunione e Liberazione brandendo crocefissi dialettici, e uno di destra non sposta una foglia senza mettere in mezzo a la zia suora e il cugino germano morto in odor di santità in terra di missione, e se proprio deve andare con le minorenni, poi non c’è una volta che non si ricordi di confessarsi col vescovo che l’ha sposato in cattedrale in mezzo a 500 invitati. Perché va bene tutto, ma insomma non siamo barbari. Per non parlare del fatto che l’unico presidente che ricordo al Quirinale senza moglie legittima è stato Scalfaro, quello devoto alla madonna, che nei momenti migliori sembrava la versione vandeana di Gomez Addams.

Non bastasse tutto questo – che non era poco – sia la Royal che la Treirweiler sono state esempi di donne che raramente trovi a fianco di un politico di successo, perché tutte e due, professionalmente parlando, sono femmine coi controcazzi, e ben assestate in posizioni apicali nei rispettivi ambiti professionali. La Royal addirittura nello stesso settore, nello stesso partito, e ora anche nello stesso governo di Holland. In genere di donna quindi – al di là delle valutazioni politiche che sono rigorosamente escluse dai miei excerpta di antropologia della rava e della fava – che non si è certo fatta spaventare dall’ombra lunga del padre dei suoi figli.

A me non pareva poco. Perché vi ricordo che ancora qualche annetto fa, all’epoca della prima campagna di Clinton – che non è una roba risalente al XVII secolo – la moglie si dovette presentare in tivù a raccontare come faceva i cookies. Hillary, dico. M’è rimasto impresso perché non ci potevo credere. Una folgorazione iconica nella mia memoria. Col capello a caschetto, il tailleur antistupro con la calza elastica, e il cerchietto blu delle Winx a tenere fermi i capelli. All’epoca era uno dei 100 avvocati più pagati d’America e spaccava il culo alle mosche nelle aule di giustizia. E fu obbligata a mascherarsi da Halloween per simulare una vaga somiglianza con quella gallina bollita di Barbara Bush, che smaltiva l’Alzheimer con le conserve di raspberries raccolte nell’orto. Perfino Michelle Obama, che pure è arrivata una ventina d’anni dopo, s’è dovuta fare da parte. Non dico che abbiano costretto anche lei a traverstirsi da Barbie First Lady perché magari vent’anni non sono passati invano. Ma di sicuro ha dovuto piantare lavoro e carriera, ché l’elettore medio non è abituato all’idea che il suo presidente sia affiancato da una donna colta e pensante. La donna colta e pensante è assimilata per principio a Grimilde, a Maleficent, a Cercei Lannister, ad Amelia la Strega che Ammalia. Se pensa, può condizionarlo, macchestaiasgherzà? L’idea che una donna che pensa serva magari a prendere decisioni più ponderate non è contemplata, c’è proprio un preciso dispositivo nell’ovaio femminile che ti fotte la concentrazione sprigionando fluidi nella sala ovale, è provato. Le lasci più di un’ora là dentro, ed è un attimo che il presidente si sente obbligato a tirar fuori la chiavetta usb coi codici nucleari e cominciare a smerdare atomiche in giro come noccioline. E poi gli storici vanno ad approfondire e cosa scoprono? Che tutto è successo perché lei era in  premestruo e mentre spicciava la White House la batteria del folletto s’è ingrippata! Sono cose che amareggiano.

Insomma, dicevo, secondo me, Ségolène e Valérie rappresentavano un modello di femmina un po’ più evoluto. Sia chiaro, niente di veramente rivoluzionario – che la rivoluzione semmai la fa la Merkel e le altre come lei occupando certe posizioni in prima persona – ma insomma un passo avanti significativo.

Poi succede quel che tutti sappiamo. La Treirweiler scrive un libro. E nel libro, da quel che leggo sui giornali, saltano fuori due cose, una più triste dell’altra.

La prima è che le donne fanno passi avanti quando si tratta di inseguire gli uomini su quello che tradizionalmente è stato il loro terreno di caccia: professione, carriera, immagine, ruolo politico. Ma quando si tratta di switchare nell’ambito degli affetti, su cui invece dovrebbero saperne assai di più – che altro abbiamo fatto a tempo pieno dall’epoca di Numitore re di Albalonga? – inforcano senza esitazioni la Delorean e in un attimo atterrano in zona Vespri Siciliani. L’amore! La passione! ll possesso! Mi uccido! Muoio! Il veleno! Deh, traetemi l’aspide, e spirerò davanti agli occhi suoi, e allora vedrà sì come sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle lo scender e il salir per l’altrui scale!  Con la differenza che adesso c’è Internet e soprattutto Facebook coi suoi amici Socialz, per cui se prima al massimo ci rimettevi le penne te e un paio di consanguinei tuoi meno lesti a segare il palo al primo apparire di lama, adesso c’è un coinvolgimento globale planetario che trovo francamente imbarazzante.

E la seconda è che, se dobbiamo dar credito a quello che racconta nel libro la signora Treirweiler, anche la Royal, al tempo, fece la stessa cosa con lei, a ruoli invertiti. O insomma all’incirca la stessa cosa, salvo lo sputtanamento planetario. Ma non so se all’epoca la rete avesse la diffusione che ha ora.

Vorrei che fosse chiaro che qui on è in discussione il dolore. Quello è un fatto personale che ognuno ha il diritto di elaborare come può e come sa. Personalmente penso alla sovrapposizione tra l’amore e il possesso come alla peggiore delle maledizioni, ma sono idee mie e non pretendo di farle coincidere con il concetto di modernità. E’ la forma che non capisco. Tu fai soffrire me, e mi devo ammazzare io, e per giunta in diretta planetaria? Ciò devo dire all’universo mondo che la mia vita senza di te ha così poco senso che non vale la pena che continui a conservarla? Ma se invece te ne andassi semplicemente affanculo tu, e io mi limitassi a dirtelo in faccia e poi prendessi la porta di casa, non sarebbe infinitamente più ecologico?

Mi sembra che le donne abbiano ancora molta difficoltà a capire quel che gli uomini in genere comprendono meglio intuitivamente, forse addirittura biologicamente, e cioè che la persona che scegli di amare, se sei fortunato, potrà dare spessore e significato infinito alla tua esistenza. Ma la cosa più importante al mondo prima, dopo e durante l’amore resti tu. Sei quella che c’era prima, e devi essere quella che ci sarà dopo. Nel momento in cui l’amore cessa per qualsiasi ragione – giusta o ingiusta, che implichi il coinvolgimento di altre o meno – nulla di quello che ti costituisce si perde. Soffri. Soffri moltissimo. Cadi, poi ti rialzi. Ma se la trovi una buona ragione per annichilirti, non hai perso un compagno. Hai perso un avatar a cui avevi delegato la tua identità.

Insomma la mia constatazione deprimente è questa. Le donne progrediscono. Due passi avanti e uno indietro, com’è nella natura di ogni processo evolutivo, ma lo fanno a strappi, e senza coerenza.

Si alzano al mattino e sono ingegneri, astronauti, fisici delle particelle, politici, amministratori, economisti, chirurghi, conferenzieri, scrittori, imprenditori. Senza nessun problema. C’è ancora molto lavoro da fare. Ma il processo è a buon punto.

Poi arriva uno caruccio che gli fa un sorriso. Loro ricambiano. L’attimo dopo sono lì che passeggiano mano nella mano, nella foto successiva le vedi amorevolmente chine su una culla appoggiate a una spalla salda e forte. E nell’istantanea successiva c’è Tosca che si catafotte giù dal parapetto di Castel S.Angelo cantando O Scarpia, avanti a Dio!

Ecco, secondo me sarebbe arrivato il momento di cominciare a pensare a un sistema concreto per risolvere questa schizofrenia. Poi per carità fate voi.

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Stand by me

I compagni delle medie, che non sentivo perlopiù da 35 anni, hanno aperto una pagina Facebook per patrocinare un revival. Fin qui, nulla di particolarmente eclatante.

E poi, come logo dell’impresa, sotto il titolo hanno scritto: il Tempo non scalfigge l’Amicizia. Erano persone carine. Non conservo brutti ricordi di nessuno di loro. Però porca pupazza, ragazzi, la mettete giù davvero dura, eh?

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La figlia del capitano

Mi sono presa un po’ di tempo per cercare di capire le implicazioni della morte di Robin Williams.

Tra l’altro, la coincidenza della scomparsa di Lauren Bacall a 24 ore di distanza ha reso ancora più evidente una cosa già piuttosto ovvia. Era amata anche la Bacall. Era rispettata. Era intelligente. Era bellissima. Aveva personalità. E rientrava a pieno titolo nel mito. Certo aveva novant’anni e non si è uccisa. Tuttavia la sproporzione dell’impatto psicologico tra l’uno e l’altra è stata enorme. Robin Williams morendo s’è portato dietro qualcosa di mio che la Bacall evidentemente non aveva.

Ed è da quando è successo che mi domando esattamente di cosa si tratta. In parte la risposta è ovvia e banale. La mia generazione, quella che oggi controlla il mondo, è la stessa che aveva 10 o 12 anni ai tempi di Mork e Mindy. Oltretutto da allora Williams non è mai sostanzialmente scomparso dal firmamento. Alti e bassi, come tutti. Ma Mindy per quel che ne sappiamo potrebbe essere finita dietro a un banco di triglie a Chioggia, e non ce ne stupiremmo nemmeno un po’.

Lui è rimasto sempre lì, più o meno in cima alla scala. Che però è una cosa che potresti dire anche, chenesò, di George Clooney – la prima serie di ER è del ’94 – o di Brad Pitt – Thelma e Louise è del ’91. Gente che bazzica da più di 20 anni insomma. Che sa fare il suo mestiere decisamente bene, con talento tutto sommato versatile sia per il dramma che per la commedia . E che se si ammazzasse farebbe molto rumore. Però lo sappiamo che non sarebbe la stessa cosa, no? Mi dispiacerebbe, anche parecchio. Nel caso di George davvero in maniera esagerata, perché mi è sempre stato simpatico, soprattutto adesso che ha smesso di frequentare maiali coreani e veline decorticate, e pare ben deciso ad accasarsi con una con un quoziente di intelligenza valevole ai fini di un titolo di studio superiore alla terza media. Ci resterei sinceramente male. Ma non nello stesso modo.

Quindi non è solo la permanenza del successo. Non è il talento. E non è il suicidio. Per quel che mi riguarda, di sicuro non è nemmeno la vocazione che aveva per quegli scioglilingua muscolo-buccali che l’avevano reso famoso, e che ho sempre francamente detestato. Come penso spesso anche vedendo Benigni, quando attaccava quella solfa mi pareva un condannato ai lavori forzati nella Casa Circondariale del Pagliaccio. Mi pareva spontaneo come una monaca a una gang bang. Qualcosa che faceva perché il mondo se lo aspettava da lui, ma che da moltissimo tempo non gli dava più nessuna gioia e non gli apparteneva.

Sono quasi sicura che non dipenda nemmeno da quei personaggi che ha recitato in modo superlativo negli ultimi anni, e in cui finalmente si era distaccato dal suo cliché. Insomnia. One hour photo. Film un po’ così, ma in cui faceva paura. Se pensi che quella faccia lì era Mrs Doubtfire, per riuscire a rendere credibile un serial killer ce ne vuole.

Tuttavia no, non credo che dipendesse neppure da questo. Credo piuttosto che sia qualcosa legato profondamente al potere d’identificazione. Il potere d’identificazione è un costrutto essenziale per rendere efficace qualunque rappresentazione. Perché non sempre l’arte è catarsi – certi film, l’unica catarsi che ti ispirano è quella di afferrare una fresa e scartavetrare la corteccia di tutti quelli che hanno contribuito alla creazione dell’opera fino al completo piallamento neuronale, come loro hanno fatto con te somministrandoti vagonate di merda -, a volte, la maggior parte delle volte, è solo onesto intrattenimento. Altre è intrattenimento disonesto. Ma comunque niente che sia destinato a durare.

Se invece la catarsi in qualche modo funziona, allora quello che vedi entra a far parte del tuo metabolismo spirituale, e dopo non sei più la stessa persona che saresti stato se non avessi letto quel libro, o visto quel film.

Ma neanche questo chiarisce tutto. Accresce il coinvolgimento emotivo ma non spiega fino in fondo il senso di perdita. La faccenda è piuttosto che i film catartici che mi sento di attribuire a Robin Williams – La leggenda del Re Pescatore, L’Attimo Fuggente, Will Hunting, Patch Adams – me l’hanno coagulato in un ben preciso personaggio che ormai risiede nel mio pantheon interiore. E parlo proprio di lui, non necessariamente di tutto il film. Non amo troppo Will Hunting, per esempio, e non impazzisco nemmeno per Patch Adams. E’ Sean McGuire che mi è rimasto dentro. È Patch. È Parry. È il professor Keating.

Perché se la botta di depressione che l’ha ucciso l’avessi avuta io, il professor Keating è quello che sarebbe venuto a leggermi poesie fino a notte fonda con gli occhi da matto, e non mi avrebbe permesso di cedere. E Sean Mc Guire mi avrebbe fatto un discorsetto all’apparenza disincantato – in realtà vivo, vero e potente – all’ombra del lago del campus, ricordandomi chi sono e cosa valgo anche se il mondo non risponde alle mie chiamate. Patch mi avrebbe messo un naso di gomma rosso e mi avrebbe costretta a fare un giro per il reparto di oncologia pediatrica prendendomi a pacchere affettuose sul coppino per ricordarmi che il dolore che annichilisce è un’altra cosa, e che la mia vita, per quanto brutta possa sembrarmi, è latte e miele rispetto a quella di tanti che mi passano accanto senza che nemmeno me ne accorga, e che vengono spazzati via da un destino tanto più grande di loro. E Parry mi avrebbe preso per mano, mi avrebbe costretta a indossare un gonnellone hippie tipo Romina Power rimediato nella spazzatura, e poi mi avrebbe portato a suonare i citofoni e scappare fino a che non mi fosse tornata la voglia di ridere.

È per questo che mi ha fatto male. Perché per me lui era quello che conosceva le vie della salvezza, e non le teneva per sè. Un terapeuta di celluloide che abitava certi angoli periferici della mia mente insieme a tante altre silenziose divinità laiche. Mi era di estrema consolazione – e non importa che non ci pensassi mai; quando qualcuno fa una cosa del genere per te una volta nella vita, oppure in un libro o anche in un film, l’ha fatta per sempre, anche quando non te ne ricordi – sapere che lui era lì, che avrebbe saputo cosa dirmi se io avessi perso le parole.

Sarebbe stato così credibile – così catartico – se tutto questo l’avesse solo recitato? Se non l’avesse avuto dentro come un talento e una ricchezza? Ovviamente no. Ma come tutti noi, non aveva solo questo. Aveva molte altre ombre di segno opposto. Ugualmente grandi. Ugualmente potenti. Ugualmente invincibili. Ha scelto il suo destino, ne aveva il diritto, e di sicuro adesso tutto gli è molto più chiaro. Adesso le cose forse hanno perfino un senso.

Sono io che ho un piccolo dio in meno, un minuscolo lare giocoso che devo togliere dal mio altare e che non sarà rimpiazzato. È questo il pezzo che si è portato via. È per questo che mi manchi, Robin.

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Kinky boot

Stamattina, a Fano, seduti in 6 al tavolo di un bar per fare colazione, abbiamo ordinato:

  1. Un caffellatte
  2. Un caffè liscio
  3. Un succo di pera
  4. Un succo di pesca
  5. Un cappuccino estivo con schiuma fredda
  6. Un caffè di ginseng in tazza piccola
  7. Un bombolone alla crema
  8. Un cornetto alla crema
  9. Un cornetto vuoto
  10. Un cornetto alla marmellata rossa
  11. Un cornetto al cioccolato
  12. Un fagottino alle mele

Con l’incrollabile certezza di colei che sa che una simile inarrivabile varietà di gusti, interessi e orientamenti all’interno di un solo campione, e oltretutto minuscolo come il nostro, sarebbe stata possibile solo in questo paese, continuo a chiedermi: si tratta del più notevole dei nostri talenti, o della peggiore delle nostre maledizioni?

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Close encounters of the third kind

Ieri sono andata dal parrucchiere. Mentre la ragazza – Veronica – mi lavava la testa, per passare il tempo ha cominciato a chiacchierare:

Non va in vacanza?

– Sono in ferie da domani per due settimane. La biblioteca chiude fino al 18 agosto

–  Ahh, e parte?

– No, rimango a casa.

Pausa solidale. A significarmi evidentemente la sua vicinanza nello spirito. E poi:

– Be’, meglio così, sa signora. A casa c’è comunque sempre tanto da fare. Lavare. Stirare. Cucinare.

L’esigenza di una testa a posto per una donna è importante, non dico di no. Però devo assolutamente smetterla di frequentare aliene.

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Hiroshima, mon amour

Prima di Hiroshima avevo parlato del Giappone qui, qui e qui.

Dopo Hiroshima invece penso proprio che il mio reportage possa considerarsi concluso.

In effetti Hiroshima è stata la prima città che abbiamo visitato, perché siamo sbarcati a Osaka, ma appena il tempo di mettere piede in albergo, eravamo già alla stazione per una gita fuori porta a Nara, che è a circa 30 chilometri, e la mattina dopo siamo ripartiti di buon mattino.

La nostra destinazione finale era Myajima, che è un’isoletta del Giappone meridionale. Ma siccome il ferry per raggiungerla si prende a Hiroshima, ci è sembrata una buona idea farci un giro per un paio di orette.

Adesso che è passato più di un mese faccio una certa fatica a rievocare esattamente quell’atmosfera, perché appena scendi dal bus e cominci ad attraversare il parco in fondo al quale si può visitare il Peace Memorial Museum, ti prende come una strana sensazione che potrebbe essere naturale oppure indotta, questo non posso dirlo, ma che comunque altera in qualche modo il peso del ricordo che puoi avere di un posto così.

Del resto la prima cosa che vedi, proprio all’imboccatura del parco, è questa:

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L’hanno lasciata com’era. L’unica cosa che rimase in piedi. Se, come me, sei nato in una città come Roma, dove le rovine sono il pane e il companatico, di primo acchitto rilevi una strana similitudine formale: l’immagine della rovina protetta da un cancello con l’edera che cresce sulle pareti circondata da un praticello verde e curatissimo ti è familiare. L’Hiroshima Dome o il foro di Traiano, per dire. Che differenza c’è? A parte il fatto che a Roma il praticello col cazzo che è curatissimo, intendo. Concettualmente si assomigliano. C’è solo un impercettibile brivido che lì per lì non riconosci neppure. Lo provi, e non lo sai. Che dice: no. Non sono proprio esattamente la stessa cosa. Però diciamoci la verità, all’inizio davvero quasi non ci fai nemmeno caso.

Poi attraversi tutto il parco, se hai voglia te lo giri, e altrimenti punti dritto al museo. Noi l’abbiamo girato perché essenzialmente, tra me e mio marito, sommiamo in due il senso di orientamento di un lemure sbronzo e dopato, per cui in buona sostanza ci siamo persi. Dopodiché, seguendo il flusso, se Dio vuole abbiamo individuato la sagoma grigia e allungata del Memorial, e ci siamo fiondati lì.

Mentre vagolavamo tra i cespugli nella speranza di capire in che direzione muoversi, mi sono imbattuta in questa curiosa indicazione, che ho fotografato:

dove

L’ho trovata un pochino surreale, in modo tragico e poetico insieme. Esseri nati a Hiorshima, e preoccuparsi dei danni che possono fare le colombe – con tutto il loro portato simbolico – ammetterete che suona davvero strano.

Ma insomma alla fine siamo entrati nel Memorial. Che è gratuito, una cosa che mi è sembrata straordinariamente giusta, anche se non ci avrei trovato nulla di strano nell’ipotesi contraria. La struttura è a due piani. Tra il primo e secondo c’è un’area in cui puoi sederti. Forse c’è anche un bar ma non ci ho fatto troppo caso, perché lì dentro l’esigenza di riposare prende il sopravvento su qualsiasi altro impulso di base. Riposare non dalla fatica, ché non è il Louvre. Riposare dalla testimonianza puntuale e metodica dell’orrore che il cuore umano può contenere. Perché è questo che vedi lì, e lo vedi senza nessuna retorica barocca. Un orrore in prosa, quasi scientifico. Non c’è patetismo né voglia di titillare miserabili istinti pulp. Non occorre. Ti dicono le cose come stanno, e se poi a restare in piedi non ce la fai, ti offrono anche una sediolina per evitarti l’imbarazzo di un patetico mancamento. Patetico per te, ma soprattutto per loro, che com’è noto non sono un popolo che ama il sovraccarico emozionale né le sceneggiate napoletane.

Forse quello che ti devasta di più in tutto questo non è nemmeno il resoconto degli effetti, che pure c’è, ed è puntuale. È la cognizione che non è accaduto a caso, ma è stato pensato, voluto, organizzato con metodo. Un obiettivo militare scelto al posto di altri, cartina alla mano, perché, per esempio, non c’erano prigionieri americani in zona. L’idea che uomini e donne abbiamo potuto sedere a un tavolo e progettarlo prima che accadesse, quando ancora sarebbe stato possibile evitarlo. L’idea di un capo di stato capace di pensare che fosse necessario. Ecco, è questo che ti costringe a sedere sulla tua sediolina e a guardare fuori dalla finestra per un po’. Perché d’improvviso l’appartenenza alla razza umana, la condivisione degli impulsi biologici di base con quel genere di persone, ti risulta intollerabile. È il male dentro di te. Qualcosa che vorresti estirpare. Così radicata e profonda è la sensazione del lato oscuro, che non puoi evitare di pensare che una parte di responsabilità ce l’hai anche tu. Che in condizioni analoghe, in epoche altrettanto incerte e pericolose, magari qualcuno avrebbe potuto convincere anche te della necessità di un epilogo del genere. E questo ti schianta. Ti riduce un mollusco. Ti fa uscire a stento da quell’edificio. Di sicuro, non ti permette di dimenticarlo.

Alla fine, nella straordinaria imprevedibilità del caso che è così spesso portatore di grazia, specie quando non te lo aspetti, la vita ha steso un tappeto di impercettibile letizia davanti ai nostri passi. Mentre attraversavamo il parco a ritroso per tornare alla stazione, siamo stati fermati circa duecento milioni di volte da gruppetti di studenti in divisa fra gli 8 e i 12 anni. C’era sempre un capobanda col quadernetto in mano tipo messale, che con aria cerimoniale compitava frasi del tipo: goodmorning sir, goodmorning madame, may I ask you a question? mentre i compagnucci  – bande di 8 o 10 ragazzini – si accalcavano alle sue spalle e crepavano di ridarella con le mani a coprire le bocca.

Io e mio marito abbiamo giocato graziosamente alla Queen Elisabeth e Prince Consort, e chinando il capo ci siamo prestati al gioco rispondendo a tutte le domande, e attendendo con pazienza mentre le nostre impressioni venivano trascritte con acribia sullo stesso quadernino dopo accesa consultazione su ortografia e pronuncia.

Quando ci ha bloccati il quarto commando di minorenni consecutivo, abbiamo seriamente temuto di non riuscire più a tornare al treno, ma abbiamo tenuto duro. E non ci saremmo persi l’esperienza per tutto l’oro del mondo.

Alla fine di ogni intervista – così prevede il protocollo che si è svolto nello stesso identico modo anche in altre città giapponesi – abbiamo anche ricevuto un gentile omaggio per il disturbo. Un origami a forma di cigno. Li abbiamo conservati. Verde quello di mio marito, e giallo il mio.

Fra quei bambini straordinariamente sorridenti e cortesi, così potenti nella verità della loro bellezza, c’era quasi sicuramente qualche lontano bis o trisnipote nel Mostro. C’era per forza, è un’ovvietà geografica. Mi è parso un bel segnale, forte e chiaro come quello che avevo ricevuto dentro il Memorial, anche se di segno opposto. C’è sempre qualcosa che fa da contrappeso al male. Qualcosa di uguale potenza, profondità e rigore. Nel mezzo, esattamente equidistanti, ci siamo noi. Io, voi, tutti. Ognuno sceglie da che parte desidera guardare. La distanza da entrambi i poli rimane identica. Anche la speranza concreta di felicità. Quello che cambia è il cuore. Perché l’unica cosa che fa la differenza – al netto di ogni gioia e dolore che siamo destinati a provare – è la forma che assume a seconda dell’orizzonte che decidi di chiamare mio.

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Ordine & metodo

E riprendiamo col Giappone. La prima puntata era qui, e la seconda qui.

Come mi aveva fatto notare Viperuzz per via digitale mentro ero lì, il limite di tanta iperstellare efficienza è che non conosce modulazione applicativa. Detto in altre parole, se il protocollo prevede un certo pattern, quel pattern si applica sempre senza tenere in alcun conto le circostanze di contesto. E se considerate che in fondo l’intera storia evolutiva dell’umanità – e la ragione per cui come specie siamo ancora presenti su questo pianeta – è il talento esattamente opposto, capite bene quali sono le controindicazioni.

Faccio un esempio. A Tokyo siamo andati a visitare la Mori Tower di Rappongi perché è l’observation deck più famoso della città. Potenzialmente si vede tutto fino al Fujiama. Empiricamente però c’è un tale livello di umidità mista a smog che in confronto io, che abito in pianura padana, c’avevo la sensazione di venire dalla Death Valley, per cui se riesci a lanciare un’occhiata in giro per un paio di centinaia di metri è già molto. In giorni o in stagioni diverse da quelle in cui siamo andati noi è probabile che all’accesso ascensori ci sia una discreta folla. Lo deduco dal fatto che gli ascensori sono 4, da 20 persone l’uno, e che c’erano almeno tre persone messe lì per ordinare la folla ed evitare casini. C’è una linea per terra, e serve a indicare il ‘no trespassing point‘ di modo che si formi una fila ordinata. Che poi i giapponesi abbiamo bisogno di aiuto per formare una linea ordinata, già quello di per sé è un concetto piuttosto metafisico.

E faccio subito una dogressione esemplificativa, poi torno a bomba. Un giorno alla stazione di Osaka mi fermo appena prima della linea gialla in attesa della metro, e lo faccio assolutamente a cazzo. Non in un punto preciso, cioé, ché non avevo la minima idea di doverlo individuare. Per me il concetto di metro è abbastanza connesso all’idea di assalto alla diligenza. Te fermi dove te pare, e speri che il dio delle porte automatiche ti lasci in prossimità di un ingresso, altrimenti sai già che dovrai cazzottare a caso l’utenza per riuscire a salire. Sono arrivata  che il treno precedente era appena passato, per cui non c’erano altre persone prima di me. Mi fermo, mi leggo il cartellone dalla parte opposta dei binari per ingannare il tempo, 40 o 50 secondi dopo mi giro, e senza che nemmeno me ne accorgessi, dietro di me, esattamente in corrispondenza alla mia posizione, si era già formata una fila perfetta. Mi avevano preso come riferimento per il solo fatto di essermi fermata. A rigore non era nemmeno in corrispondenza del segnale che indicava il punto preciso di apertura delle porte – che naturalmente c’è – ero un pochino più a destra. Non ha avuto nessuna importanza. Secondo quel senso della collettività organizzata che gli è proprio, mi si sono tutti accodati senza fiatare. Mi sono sembrati così inconcepibili che li ho fotografati.

20140602_115635E comunque sia chiaro che, con me o senza di me a fare da caro leader, la metro si aspetta rigorosamente così. Per dire.

metro2Ma torniamo alla Mori Tower di Rappongi. Dicevo quindi che malgrado nulla sia più inconcepibilmente superfluo dell’istigare il giapponese medio alla fila – è un drive che hanno dentro a livello cromosomico, una treib che se solo Freud l’avesse saputo ci avrebbe scritto un’appendice della Psicopatologia della Vita Quotidiana – ugualmente il protocollo prevede che i tre addetti ai controlli stiano lì non solo a mostrarti la linea bianca indicandola e inchianandosi quasi fino a terra con dovizia di spiegazioni epiche che sailcazzo cosa dicono perché va da sé che non ho capito, ma che lo facciano del tutto indipendentemente dal numero di presenti. È chiaro che se nell’atrio ci sono 200 persone, è più che opportuno indirizzarle e smistarle. Ma nel caso specifico erano più loro che noi. Noi eravamo in due. E ci hanno trattato come fossimo una folla. Soprattutto ci hanno comunicato l’assoluta necessità di piazzare il piedino esattamente in corrispondenza della linea bianca, non un centimento più avanti, nè un centimetro più indietro. Giuro che se non avessimo ottemperato con sollecitudine si sarebbero piegati a terra per collocarci il piede a mano, perché era palese che sulla norma non si poteva transigere.

Viene spontaneo chiedersi: ma in caso di un’emergenza davvero imponderabile, una di quelle che nessuna delle tue linee guida può realmente prevedere – giacché la natura della vita è appunto quella di essere in ultima analisi assolutamente impredicibile – voi come vi regolate?

L’eleganza, la precisione, l’inappuntabile sequenza degli eventi nei tempi e nei modi appropriati sono belle qualità. Ma non a caso, a ogni collasso di civiltà non sono mai i bizantini quelli che sopravvivono. Semmai i visigoti.E sapete che vi dico? Che secondo me ai giapponesi in fondo non frega. La sopravvivenza non è una priorità. L’ordine e il metodo lo sono. Al limite anche a costo dell’estizione.

Prossima puntata: Hiroshima, mon amour.